giovedì 9 novembre 2017

La disoccupazione tecnologica

Il tema della disoccupazione tecnologica sta diventando sempre più presente nei giornali, mi permetto di dire la mia.
Intanto il tema non è nuovo il problema se lo erano posto già 200 anni fa, in particolare possiamo citare Ricardo e Marx. Inoltre ci sono stati movimenti di rivolta contro la innovazione,  sempre nello stesso periodo, il cui esempio famoso è quello dei luddisti contro la innovazione del telaio meccanico. La innovazione tecnologica è comunque inevitabile, anzi è uno dei motori principali dello sviluppo. Infatti, le innovazioni tecnologiche permettono di acquisire, a chi le sa sfruttare, un vantaggio competitivo, nuovi prodotti o servizi o minori costi su prodotti e servizi consolidati. E’ quindi evidente che imprenditori e aziende siano spinti ad adottarli, questo ha caratterizzato il capitalismo dalla rivoluzione industriale in poi (vedi post su Technological Revolutions and Financial Capital).


Da un punto di vista della teoria economica, come abbiamo visto, Ricardo è uno dei primi a porsi il problema, per Marx diventa uno dei fattori chiave della sua teoria, infatti la continua spinta alla meccanizzazione comporterebbe una maggior concentrazione della ricchezza e il progressivo impoverimento delle classi lavoratrici, con conseguente inevitabile necessità della rivoluzione comunista. Per alcuni degli economisti successivi il problema però non si porrebbe secondo il seguente meccanismo: l’aumento della meccanizzazione comporta un aumento dei profitti che si trasforma in aumento di risparmi che, a sua volta, genera un aumento di investimenti che permette la creazione di nuova produzione e lavoro innescando un ciclo positivo. 
Su questo punto la teoria economica si divide, già Malthus si pone in maniera critica evidenziando la possibile carenza di domanda, ma sarà Keynes, sull’onda della crisi del ‘29, a dare una spiegazione più completa. In sintesi il meccanismo di aumento degli investimenti tramite il risparmio non sarebbe automatico ma incontrerebbe degli ostacoli dovuti anche a fattori soggettivi (aspettative) e altre rigidità, pertanto è necessario nei periodi di crisi compensare questa carenza di domanda con gli investimenti pubblici.

Quindi, se fino ad adesso le innovazioni tecnologiche non hanno comportato una disoccupazione di massa lo si deve anche al fatto che, nel tempo, nei paesi più sviluppati il peso e il ruolo dello Stato è decisamente aumentato nel corso del ‘900.

Il problema della attuale situazione è che il meccanismo di redistribuzione del reddito innescato dalle politiche pubbliche si è ridotto. Infatti, oggi le aziende multinazionali, che possono beneficiare delle catene produttive globalizzate, riescono a macinare maggiori profitti, questi profitti in parte possono essere reinvestiti all’estero e in parte (vedi paradisi fiscali) possono eludere le tasse. Quindi il problema attuale è che meccanismi di riequilibrio tra redditi da lavoro e profitti operati dagli Stati nazionali sono inceppati dall’indebolimento della forza degli Stati nazionali a vantaggio delle imprese multinazionali. 
Quindi coloro che propongono uno Stato minimo, o comunque molto più leggero, non hanno la minima idea degli effetti perniciosi di tali idee, che possono essere comprese solo alla luce dell’interesse personale, mentre per i lavoratori uno Stato forte e che sappia fare bene il suo mestiere è invece garanzia di una crescita equilibrata e di maggiori opportunità per tutti.




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