venerdì 25 settembre 2015

Firmare i referendum

Ieri ho firmato per i referendum proposti da Civati, anche se non sono d'accordo al 100% su tutto, credo che  su questi temi i cittadini abbiano il diritto di esprimersi.
Riporto a questo proposito qui sotto l'articolo tratto da Critica Liberale di Giancarlo Tartaglia 

La Carta Costituzionale contiene i principi fondamentali della convivenza sociale di una collettività di cittadini che appartengono al medesimo Stato. Perché una Costituzione possa definirsi democratica è necessario che i suoi contenuti siano condivisi da tutti, o quanto meno, dalla grandissima maggioranza dei cittadini. Una costituzione espressione non di tutti, ma di una parte dei cittadini, non può essere definita democratica. La nostra Costituzione entrata in vigore il 1 gennaio del 1948 (70 anni fa era in vigore lo Statuto Albertino!) è stata elaborata da una assemblea eletta proporzionalisticamente e perciò massimamente rappresentativa del popolo italiano e di tutte le sue espressioni politiche e culturali. È stata approvata con il consenso di oltre l’82% dei parlamentari e con nessun voto contrario.
Possiamo, perciò, ben dire che la Costituzione del ’48 possiede una piena e indiscutibile legittimazione democratica.
Questa premessa può apparire superflua, ma non lo è se pensiamo come si sta affrontando in queste settimane il tema della riforma costituzionale. È, infatti, evidente che la modifica della Costituzione non può essere e non deve essere tema di competenza governativa. Certamente, cosi non è stato nei decenni passati. Basterà ricordare l’infelice riforma del titolo V voluta dal Governo Amato e i pasticci sulla devoluzione per accontentare la Lega di Bossi. Tutte modifiche costituzionali volute dai governi, approvate con maggioranze ridotte e che hanno provocato soltanto disastri gestionali e guasti all’assetto costituzionale.
Oggi, in nome di uno sbandierato decisionismo, che si presenta come l’ultima spiaggia delle ideologie salvifiche ormai al tramonto, il Parlamento (questo Parlamento eletto con criteri scarsamente rappresentativi) è chiamato con urgenza a modifiche costituzionali che vengono dipinte come indifferibili e necessarie per garantire l’efficienza e la funzionalità dei poteri statali.
È di tutta e chiara evidenza che cosi non è. Lo hanno dimostrato con precisione costituzionalisti, che non possono certo essere considerati conservatori, come Michele Ainis e Stefano Passigli. Anche con il bicameralismo perfetto i disegni di legge governativi sono sempre stati approvati in tempi più che sostenibili. La Costituzione consente al Governo la possibilità di ricorrere ai decreti legge, immediatamente esecutivi, e ai decreti legislativi, che lasciano al Governo ampi margini di intervento. Per non tralasciare il ricorso ai voti di fiducia che hanno consentito una eccezionale rapidità di approvazione dei provvedimenti dell’esecutivo. Non si può, perciò, non condividere l’affermazione di Passigli che «il mantra della debolezza dell’Esecutivo è stato un alibi per una classe politica spesso incapace di governare».
E allora, se cosi è, per quale motivo tanta urgenza e tanta fretta nel voler ridurre il Senato ad una sorta di Cnel, espressione delle regioni, peraltro eletto dai consigli regionali, che costituiscono la classe politica a più alto rischio di criminalità, come è emerso dalle cronache politiche giudiziarie di questi ultimi decenni?
La risposta non ha nulla a che fare con la necessità di ammodernare la Costituzione del ’48 e di proseguire nel trionfante (almeno dal punto di vista mediatico-propagandistico) cammino riformistico del Governo. La sua motivazione è tutta interna al partito di maggioranza. Il braccio di ferro cui stiamo assistendo è soltanto l’occasione che il segretario premier intende sfruttare per ridurre all’obbedienza, in un modo o nell’altro, la sua minoranza interna.
Ma si può modificare una carta costituzionale per risolvere le beghe interne di un partito?
La questione su cui tutti dovrebbero riflettere con la massima attenzione è un’altra. Il cuore del problema non è quello su cui si discute in queste ore, non è se un Senato ridotto di poteri e competenze debba essere eletto o nominato. Tutti devono chiedersi se questa ipotizzata riforma, nel suo complesso, incide e in che misura sull’equilibrio dei poteri, che è la base fondamentale di una corretta democrazia. A questa domanda la risposta non può essere che di grande preoccupazione. Il combinato disposto delle modifiche alle attribuzioni del Senato e della legge elettorale determinerà una concentrazione inquietante ed eccezionale di poteri nelle mani del capo di un partito e provocherà una pericolosissima compressione della sovranità popolare. È, perciò, necessario che tutti riflettano con la massima attenzione su quello che sta accadendo in queste ore e sulla deriva ineludibilmente autoritaria che si sta profilando.

mercoledì 23 settembre 2015

Jared Diamond - Armi, acciaio e malattie-Breve storia del mondo degli ultimi 13.000 anni-(Einaudi)

Il libro uscito alcuni anni orsono, nel 1997 ma successivamente aggiornato, mantiene comunque intatto il suo interesse che conferma il  Pulitzer per la saggistica  assegnatogli. Diamond Jared, l’autore, è una persona con interessi multidisciplinari (biologo, fisiologo e ornitologo) e così pure il suo libro. La domanda fondamentale a cui cerca di dar risposta nel libro è perché gli europei hanno assoggettato gran parte degli altri popoli? Secondo l’autore le diversità di sviluppo tra le popolazioni sono legate a motivazioni essenzialmente ambientali in senso lato. La presenza di  specie agricole e animali più facilmente addomesticabili e utilizzabili in primis, la contiguità geografica che ha favorito la trasmissione delle pratiche migliori e anche la necessità di adottarle per non soccombere. L’autore ci conduce quindi in  un appassionante giro del mondo, con evidenza di casi esemplari con i quali illustrare e verificare le sue teorie. Nel suo libro vengono esposti aspetti attinenti alla linguistica, all'archeologia, alla genetica in maniera sempre interessante e mai noiosa, affiancando aneddoti personali a resoconti storici che partono da 13.000 anni fa sino ai giorni odierni. Il libro a mio parere non sempre risulta convincente e pecca forse, in alcuni assunti, di un certo «riduzionismo» nelle motivazioni dello  sviluppo ad alcuni fattori, anche se evita di  affermare che i fattori individuati siano  indici di superiorità culturale o morale dell’Occidente. Riamane  comunque un libro piacevole, interessante e ben documentato, anche se con  qualche ripetizione, che ne fanno un libro assolutamente da leggere e tenere nella propria biblioteca

domenica 20 settembre 2015

Ha Joon Chang - Cattivi samaritani

Il libro che recensiamo oggi è Cattivi samaritani (Università Bocconi Editore) dell'economista, di origine coreana, Ha-Joon Chang che insegna economia dello sviluppo a Cambridge, allievo del premio Nobel Joseph Stiglitz. Chi sono i cattivi samaritani per l'autore? Sono i paesi sviluppati, quelli occidentali e non solo, che vorrebbero imporre spesso le idee neo-liberiste ai paesi sottosviluppati come medicina per emergere dalla povertà. In realtà, come dimostra l'autore, sembra che questi paesi industrializzati soffrano di amnesie storiche. Infatti l'economista, con una ricostruzione  storica accurata, mostra come tutti i paesi sviluppati, a partire dall'Inghilterra e per continuare con gli Stati Uniti, hanno per lungo tempo condotto politiche protezionistiche, ad esempio dazi e altro, per proteggere le loro industrie; riprende, a questo proposito, la metafora dell'economista tedesco dell'800 List che accusava proprio l'Inghilterra, dopo essere salita nel sentiero dello sviluppo industriale, di tentare di "buttar giù la scala" per non permettere agli altri di svilupparsi. 
Oltre ai dazi e politiche protezionistiche, l'autore cita come sia stato importante l'intervento dello Stato in tutte le storie di sviluppo, anche le più recenti come la sua stessa Corea e come nella protezione dei brevetti,  gli stessi Stati Uniti, siano stati in passato molto meno rigidi. La storia dimostra, quindi, come le economie si siano sviluppate in maniera del tutto opposta da come tentano di dimostrare, con le loro raccomandazioni, il FMI o la Banca Mondiale. Nella parte finale  del libro cerca  anche di smontare le teorie che tentano di spiegare i ritardi in termini culturali portando, ad esempio, alcune affermazioni che nel passato attribuivano di incapacità culturali popoli e nazioni,ad es. la Germania, che invece sono oggi delle potenze economiche. 
In conclusione un libro molto interessante e anche piacevole da leggere per comprendere come effettivamente funzioni l'economia dello sviluppo.

lunedì 7 settembre 2015

Immigrazione e sviluppo

E' indubbio che il problema della  immigrazione stia diventando sempre più pressante e problematico anche se, nonostante stiano crescendo i flussi, ancora i numeri sono gestibili: 200.000 immigrati in un anno per un paese come l'Italia che ha 60 milioni di abitanti,  un PIL  di 1600 miliardi non sono, con un poco di organizzazione,  un problema insormontabile, semmai il problema è che non siamo tanto organizzati neanche per altro. Certo che, in prospettiva, il problema c'è e qui viene l'aggancio con lo sviluppo. Solo alcuni paesi, infatti, hanno conosciuto  lo sviluppo, inizialmente erano molto pochi e solo in Occidente e poi, piano piano,  se ne stanno aggiungendo altri con gradi di sviluppo e  benessere diversi. Il problema è  che sono moltissimi ancora quelli che non ci sono riusciti. La teoria ci dice che ci sono alcuni elementi che sono necessari per innescare la crescita, ma la pratica ci dimostra che solo alcuni ci riescono. A questo proposito è illuminante la storia del Giappone, un paese per secoli isolato e con un classe dominante legata alla tradizione (gli Shogun) che ne hanno impedito lo sviluppo. E' stata poi la rivoluzione Meiji, a meta '800, che imponendo una modernizzazione del paese, nel solco tracciato dalle potenze occidentali, ha consentito al Giappone di diventare per lungo tempo il paese più sviluppato e di riferimento dell'Asia. Come vedete gli aspetti politici e istituzionali hanno giocato un ruolo determinante e ne troviamo altri esempi. Come ho detto gli ingredienti per la crescita  sono noti e presuppongono: uno Stato efficiente con una buona burocrazia, un sistema giuridico appropriato, una buon livello culturale e professionale della popolazione ecc. Come vedete sono elementi che non è facile costruire e per cui ci vuole tempo e molto lavoro e, tra l'altro, ci vuole anche una politica progressiva e che si adatti anche alle specificità della nazione in esame; le ricette preconfezionate e uguali per tutti come quelle che  hanno proposto spesso FMI e Banca Mondiale, sono per lo più un errore. Quindi servirebbe un aiuto in questo senso. Mi pare che l'Occidente, USA principalmente ma anche i paesi europei, non hanno fatto molto di tutto questo mirando solo a interventi qua e la, dettati da interessi a breve, e tra l'altro spesso disastrosi, tanto per citare Iraq ma anche la Libia. Tutto ciò per dire che alla fine, se si riesce nel tempo a far crescere i paesi non sviluppati, con una strategia di lungo periodo,  come ha dimostrato la storia, i vantaggi sono per entrambi, evitando così le motivazioni ad esodi di massa. L'alternativa è erigere muri che, oltre a costare anche solo per manutenzione e controllo, non credo siano a lungo gestibili. Il problema politico è che la popolazione tende a preferire gli sbarramenti per paura e quindi le élite politiche non hanno grande interesse a breve di perseguire altre politiche. Ovviamente, nel breve, bisogna porre dei limiti ai flussi evitando le tragedie, ma solo una strategia di sviluppo può risolvere il problema. Obiezione di molti: ma dopo li prendiamo i soldi visto che non riusciamo a dar neanche del lavoro ai nostri? Effettivamente è chiaro che il problema si pone ma, da una parte, possiamo vederlo come una  grande opportunità, molti degli interventi poi sono di carattere istituzionale e culturale e non solo economico, inoltre,  i paesi in via di sviluppo spesso  hanno delle grandi ricchezze in termini di risorse e, se non ci limitiamo a rapinargliele come si  è fatto volentieri, forse troviamo un ragionevole punto di equilibro tra dare ed avere.