venerdì 30 gennaio 2015

La gallina e l’uovo ovvero della domanda e dell’offerta.

Tutti conoscono la famosa domanda, un poco irritante e senza risposta, se è nata prima la gallina o l’uovo. Questa domanda mi ricorda la eterna diatriba tra economisti «offertisti» e «domandisti», che dibattono se sia più importante e fondamentale per l’economia la offerta o produzione o  se invece, per gli altri, non sia la domanda. 
Ma andiamo con ordine e torniamo al passato. Adam Smith, uno dei fondatori della moderna scienza economica, era convinto assertore della  importanza dell’industria, in opposizione ai «fisocratici» che  ritenevano fondamentale l’agricoltura e ai "mercantilisti" che invece puntavano sul commercio, e inoltre, della importanza di aumentare la produttività (cioè il prodotto per ora lavorata) grazie alla organizzazione/divisione del lavoro. La posizione di Smith, che si è poi rivelata fondamentalmente corretta, va comunque inserita nel contesto storico, siamo alla fine del ‘700, e certo di produzione e prodotti non ce ne erano molti e quindi era logico dare importanza allo sviluppo dell’industria. Tra l’altro Smith non era cosi tenero con i padroni come qualcuno potrebbe essere  portato a credere: «I mercanti e padroni sono comunemente rivolti al loro interesse (…) che all’interesse della società». Detto ciò,  va anche detto che subito dopo qualcuno ha incominciato ad avere il dubbio che potessero  nascere problemi di domanda, in particolare Malthus e anche Ricardo quando parla della meccanizzazione e inizia a pensare che l’innovazione tecnologica richiedendo meno mano d’opera poteva alimentare  quindi una carenza di domanda. Diciamo, semplificando un poco, che gli economisti classici e neo classici credevano alla cosiddetta legge di Say,  ovvero che l’offerta crea la sua domanda e quindi se si produce si producono anche i redditi per pagare i prodotti. La risposta ai problemi sollevati da Ricardo era sostanzialmente questa, se gli imprenditori necessitano di meno lavoro questo verrà domandato meno e quindi i lavoratori dovranno diminuirne il prezzo, cioè i salari, e quindi gli imprenditori avranno di nuovo convenienza ad assumere e quindi il mercato si autoregola. Ovviamente non era dello stesso parere Marx, ma qui il discorso si farebbe troppo lungo e ne parleremo in altri post.
Tutto ciò sembrava filare, a parte il succedersi di crisi economiche nella storia sino alla grande crisi del ’29, dove le ricette della economia standard non sembravano più funzionare. Qui interviene Keynes che riprende le intuizioni di Malthus e  ritorna al problema della domanda. 
Il discorso è complesso e quindi semplifico notevolmente, il ragionamento di Keynes in sostanza ci dice che gli imprenditori (gli «animal spirits») sono spinti alla produzione dalle prospettive di guadagno e di rendimento degli investimenti. Questa spinta risente però anche del clima di fiducia, per cui se le prospettive sono buone investono e aumentano la produzione e quindi l’occupazione. Ma se la situazione è critica, come lo era nel ’29, tendono a diminuire la produzione, che serve infatti produrre se pensi di non vendere? Quindi si genera ulteriore disoccupazione e quindi minori redditi da spendere e quindi si genera un ciclo negativo che si autoalimenta, si entra in quella che lui chiama «trappola della liquidità», ovvero ognuno si tiene stretti i soldi e l’economia non gira. Per spezzare questa spirale negativa c’è solo un modo: aumentare le spese dello Stato, opere pubbliche, che generano quindi produzione, domanda di lavoro e redditi. Questa strategia, adottata da Roosvelt, in maniera indipendente, sostanzialmente funzionò riducendo l’entità della crisi (sarà comunque la seconda guerra mondiale e le spese militari di fatto a garantire la  piena occupazione). 
Nel dopoguerra, nei paesi occidentali, si afferma sostanzialmente lo spirito keynesiano (anche questa è una semplificazione) e quindi si apre un periodo di  prosperità in cui si continua ad aumentare la spesa sociale e la tendenza a redistribuire il reddito. Purtroppo, come tutte le storie belle, anche quella della domanda ha i suoi limiti. Per spiegare i problemi faccio un esempio, se abbiamo il paese A in cui lo Stato spende i soldi ma diciamo tende ad avvantaggiare certe produzioni (certi amici direi ma è un ipotesi di scuola), che succede? L’economia gira, la produzione aumenta e anche di norma la occupazione, ma le industrie in questione, che non sono troppo sollecitate dalla concorrenza, sono in genere meno efficienti ovvero producono prodotti di minor qualità o maggior costo del dovuto. Se nel paese B invece lo Stato spende i soldi per migliorare l’istruzione e quindi alimentare con risorse migliori anche il sistema produttivo, fa ricerca magari cercando di fare sistema con le imprese o incentiva le imprese a fare ricerca, può succedere che il suo sistema produttivo sia più efficiente e produca prodotti più innovativi, qualitativamente migliori e forse anche meno cari. Che accade  allora nel paese A? I cittadini  hanno i soldi perché lavorano, ma dovendo scegliere, tendono a privilegiare i prodotti del paese B, quindi aumentano le importazioni e diminuiscono le esportazioni, ovvero il saldo diventa negativo (che significa che i soldi fuoriescono dal paese), quindi ci troviamo in un paese in cui il debito dello Stato generalmente aumenta e peggiora anche il saldo della bilancia commerciale (ogni riferimento all’Italia è puramente voluto) che vi assicuro non è una situazione positiva. Insomma la morale della favola, favola ovviamente molto semplificata, non abbiamo parlato per esempio del ruolo della moneta e quindi delle banche e del sistema finanziario  in genere che comunque hanno la loro importanza,  è questa: non esistono ricette facili e valide sempre, gli economisti dicono «non esistono pasti gratis», quindi quando leggete qualche autore che, troppo tenacemente, sostiene la logica «offertista» o «domandista», drizzate le antenne perché c’è puzza di bruciato.

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