venerdì 26 settembre 2014

Discorso di Stiglitz alla camera

 Pubblico stralci della lezione di Joseph Stiglitz tenutasi alla Camera il 23 settembre che condivido in pieno.

Non ho bisogno spiegare quanto sia drammatica la situazione economica in Europa, e in Italia in particolare. L'Europa è in quella che può definirsi una «triple dip recession», con il reddito che è caduto non una, ma tre volte in pochi anni, una recessione veramente inusuale. Così l'Europa ha perso la metà di un decennio: in molti paesi il livello del Pil pro capite è inferiore a quello del 2008, prima della crisi; se si estrapola la serie del Pil europeo sulla base del tasso di crescita dei decenni passati, oggi il Pil sarebbe del 17% più alto: l'Europa sta perdendo 2000 miliardi di dollari l'anno rispetto al proprio potenziale di crescita.
Oggi abbiamo a disposizione una grande quantità di dati sull'impatto delle politiche di austerità in Europa. I paesi che hanno adottato le misure più dure, ad esempio chi ha introdotto i maggiori tagli al proprio bilancio pubblico, hanno avuto le performance peggiori.
Non solo in termini di Pil, ma anche in termini di deficit e debito pubblico. Era un esito previsto e prevedibile: se il Pil decresce anche le entrate fiscali si riducono e questo non può far altro che peggiorare la posizione debitoria degli stati.
Tutto ciò avviene non perché questi paesi non abbiano realizzato politiche di austerità, ma proprio perché le hanno seguite. In molti paesi europei siamo di fronte non a una recessione, ma a una depressione.
La Spagna, ad esempio, può essere descritta come un paese in depressione se si guardano gli impressionanti dati sulla disoccupazione giovanile di quel paese. La disoccupazione media è al 25% e non ci sono prospettive di miglioramento per il prossimo futuro (...).
Quali sono le cause? Devo dirlo con molta franchezza: l'errore dell'Europa è stato l'euro. Quando faccio questa affermazione voglio dire che l'Euro è stato un progetto politico, un progetto voluto dalla politica. Robert Mundell, premio Nobel per l'economia, sosteneva fin dall'inizio che l'Europa non presentava le caratteristiche di un'«area valutaria ottimale», adatta all'introduzione di un'unica moneta per più paesi. Ma a livello politico si riteneva che la moneta unica avrebbe reso l'Europa più coesa, favorendo l'emergere delle caratteristiche proprie di un area valutaria ottimale. Questo non è successo; l'euro, al contrario, ha contribuito a dividere e frammentare l'Europa.
Gli errori concettuali
Vediamo gli errori concettuali alla base del progetto dell'euro (...). Quando si crea un'area monetaria si vanno ad eliminare due meccanismi di aggiustamento, i tassi di cambio e i tassi di interesse. Gli shock sono inevitabili e in assenza di meccanismi di aggiustamento si va incontro a lunghi periodi di disoccupazione. I 50 stati federati degli Usa hanno un bilancio unitario a livello federale e due terzi della spesa pubblica negli Stati Uniti sono a livello federale. Quando uno stato come la California ha un problema, può contare ad esempio sull'assicurazione pubblica contro la disoccupazione, che è finanziata da fondi federali. Se una banca in California è in crisi, viene attivato un fondo di emergenza anch'esso dotato di risorse federali. Un'altra differenza di fondo tra gli stati che compongo gli Usa e quelli dell'Unione Europea è che nessuno negli Stati Uniti si preoccuperebbe per lo spopolamento del Sud Dakota a seguito di una crisi occupazionale, anzi, l'emigrazione è vista come un meccanismo fisiologico. Ma in Europa un'emigrazione come quella che ha caratterizzato la componente più giovane e istruita della popolazione del sud Europa – dove la disoccupazione giovanile è a livelli elevatissimi ha effetti negativi di impoverimento di quei paesi, con tensioni sociali e frantumazione delle famiglie. Sono costi sociali che non sono calcolati dal Pil. Tutto ciò era stato in qualche modo previsto nel momento in cui si è deciso di introdurre l'euro (...).
Quali altri errori sono stati compiuti? Innanzi tutto l'idea che le cose si sarebbero risolte se i paesi avessero mantenuto un basso rapporto tra deficit o debito pubblico e Pil. È l'idea che sta dietro al Fiscal compact. Ma non c'è nulla nella teoria economica che offra un sostegno ai criteri di convergenza adottati in Europa. Anzi, la realtà ci mostra come quei criteri fossero sbagliati: Spagna e Irlanda avevano un bilancio pubblico in avanzo prima del 2009, non avevano sprecato risorse. Eppure hanno avuto delle crisi gravissime. Il debito ed il disavanzo di questi paesi si sono creati successivamente, per effetto della crisi, e non viceversa. Il fatto di aver introdotto un Fiscal compact che impone vincoli ferrei al disavanzo e al debito non risolverà i problemi, né aiuterà a prevenire la prossima crisi.
Un altro elemento che non è stato valutato appieno è che quando un paese si indebita in euro, piuttosto che in una moneta emessa dal paese che contrae il debito, si creano automaticamente le condizioni per una crisi del debito sovrano. Il rapporto debito/Pil negli Stati Uniti è analogo a quello europeo ma gli Usa non avranno mai una crisi del debito sovrano come quella che ha investito l'Europa. Perché? Perché l'America si indebita in dollari, e quei dollari verranno sempre rimborsati perché il governo degli Stati Uniti può stampare i propri dollari. La crisi che ha colpito i debiti sovrani di numerosi paesi europei negli ultimi anni è simile a quanto ho visto molte volte quando ero capo economista della Banca Mondiale: paesi come l'Argentina o l'Indonesia hanno vissuto profonde crisi causate proprio dal fatto che si erano indebitati in valute che non potevano controllare. Quando questo avviene c'è sempre il rischio di una crisi del debito, e in Europa le condizioni per questo tipo di crisi sono state create con l'introduzione dell'euro. L'unica soluzione possibile nell'attuale situazione europea è piuttosto semplice e si chiama Eurobond. Tuttavia, sembrano esserci ostacoli politici a questa soluzione che la rendono impraticabile, ma questa sembra l'unica via d'uscita logica.
Inoltre, con l'euro si è creato un sistema fondamentalmente instabile. L'obiettivo iniziale era quello di favorire la convergenza tra gli stati europei, attraverso la disciplina fiscale dei paesi membri. Il sistema che è stato creato in realtà produce divergenza. Il mercato unico, la libera circolazione dei capitali in Europa sembrava essere la strada verso una maggiore efficienza economica. Ma non ci si rese conto del fatto che i mercati non sono perfetti. Negli anni ottanta c'erano alcuni economisti convinti del perfetto funzionamento dei mercati, mentre oggi siamo consapevoli delle innumerevoli imperfezioni che li caratterizzano. Ci sono imperfezioni da lato della concorrenza, imperfezioni sul versante del rischio e dell'informazione. I mercati non sono quelli descritti dai modelli economici semplificati (...).
L'insistenza sulle riforme strutturali
Oggi si insiste molto sulle riforme strutturali che i singoli stati dovrebbero introdurre (...) Quando si sente la parola riforma si è portati a pensare a qualcosa dagli esisti sicuramente positivi, ma sotto quest'etichetta possono nascondersi misure dagli esiti profondamente negativi. Le riforme strutturali in realtà sono quasi tutte viste dal lato dell'offerta, con obiettivi come l'aumento dell'offerta o della produttività. Ma, è realmente questo il problema dell'Europa e dell'economia globale? No. I problemi oggi sono legati a una debolezza della domanda, non dell'offerta. Le riforme strutturali sbagliate aggraveranno, attraverso la riduzione dei salari o l'indebolimento degli ammortizzatori sociali, la debolezza della domanda aggregata, con ovvie conseguenze su disoccupazione e dinamica macroeconomica. E' necessario anche riflettere sul momento in cui si possono adottare tali riforme. Senza scendere nel merito delle riforme del mercato del lavoro nei diversi paesi europei, vorrei farvi notare che i paesi caratterizzati da un mercato del lavoro fortemente flessibile non hanno evitato le gravi conseguenze della crisi. Gli Stati uniti erano apparentemente il paese con il mercato del lavoro più flessibile, ma hanno avuto una disoccupazione al 10%. E anche oggi, quando viene propagandata la grande ripresa dell'economia statunitense, con una disoccupazione ridotta al 6%, bisogna pensare che c'è una fetta della popolazione americana sfiduciata al punto tale da aver smesso di cercare un'occupazione. Il tasso di disoccupazione reale degli Stati Uniti è attorno al 10% (...).
Che cosa dovrebbe dunque fare l'Europa? Sembra veramente difficile che si possa risolvere la crisi intervenendo con riforme nei singoli paesi senza riformare la struttura dell'eurozona nel suo complesso. Su alcuni di questi interventi strutturali sembrerebbe esserci un discreto consenso.
In primo luogo, una vera Unione bancaria, fatta di vigilanza e di assicurazione comune sui depositi, faciliterebbe la risoluzione congiunta delle crisi. Si tratta di misure urgenti, e l'urgenza è data dai numerosi fallimenti di imprese e banche, che possono danneggiare seriamente le prospettive di crescita future.
In secondo luogo, è necessario un meccanismo federale di bilancio in Europa che potrebbe prendere, ad esempio, la forma degli Eurobond, una soluzione pratica e facile che consentirebbe all'Europa di utilizzare il debito in funzione anticiclica, come hanno fatto gli Stati Uniti in questi anni. Se l'Europa potesse indebitarsi a tassi di interesse negativi come stanno facendo gli Stati Uniti potrebbe stimolare molti investimenti utili, rafforzare l'economia e creare occupazione. E i soldi che oggi vengono spesi per il servizio del debito dei singoli paesi potrebbero essere utilizzati per politiche di stimolo alla crescita.
In terzo luogo, l'austerità va abbandonata e va adottata una strategia articolata di crescita. I paesi europei sono molto diversi tra loro, ad esempio in termini di produttività. Sono dunque necessarie politiche industriali che favoriscano la crescita della produttività nei paesi più deboli, ma tali politiche sono precluse dai vincoli di bilancio imposti agli stati membri. Un ostacolo ulteriore è rappresentato dalla politica monetaria. Negli Stati Uniti la Federal Reserve ha un mandato articolato su quattro obiettivi: occupazione, inflazione, crescita e stabilità finanziaria. Oggi il principale obiettivo della Federal Reserve è l'occupazione, non l'inflazione. Al contrario la Banca Centrale Europea ha come unico mandato l'inflazione, si concentra unicamente sull'inflazione. Questo viene da un'idea che era molto di moda, benché non comprovata da alcuna teoria economica, quando lo Statuto della BCE è stato redatto. L'idea consisteva nel considerare la bassa inflazione come l'elemento di traino fondamentale e quasi esclusivo per la crescita economica. Nemmeno il Fondo Monetario Internazionale condivide più questa convinzione, ma l'Europa non sembra in grado di abbandonarla. Questa politica monetaria sbagliata, può produrre e sta producendo conseguenze economiche gravi. Se gli Stati Uniti mantengono bassi i loro tassi di interesse per stimolare la creazione di nuovi posti di lavoro, mentre in Europa i tassi continuano a mantenersi più elevati, in una logica anti-inflazionistica, questo favorisce l'afflusso di capitali e l'apprezzamento dell'euro. E questo, ovviamente, rende ancora più difficile esportare le merci europee con un evidente impatto negativo sulla crescita. Quando gli Stati uniti hanno cominciato ad adottare un politica monetaria fortemente espansiva ricorrendo al «Quantitative easing», l'esito positivo di questa politica è stato facilitato dal fatto che l'Europa non ha fatto lo stesso.
Patologie Usa e Ue
Se l'Europa avesse abbassato i propri tassi di interesse nello stesso modo in cui l'ha fatto la Federal Reserve, la ripresa negli Stati Uniti sarebbe arrivata molto più lentamente. Il paradosso, dunque, è che gli Stati Uniti dovrebbero ringraziare l'Europa per aver aiutato la ripresa dell'economia americana tramite le sue politiche monetarie sbagliate. Ci sono altri aspetti da considerare. Viviamo oggi in un economia fortemente legata all'innovazione tecnologica e alla conoscenza. Ma per favorire l'innovazione sono necessari investimenti costanti e di grandi dimensioni in comparti come l'istruzione e le infrastrutture. Si tende a pensare agli Stati Uniti come a un'economia innovativa. Questo è vero, ma è necessario ricordare negli Stati Uniti le innovazioni più importanti, come Internet ad esempio, sono state sostenute e finanziate attivamente dal governo. C'è stata una politica attiva dell'innovazione. Quando ero a capo del Gruppo dei consiglieri economici della Casa bianca, verificammo che i benefici degli investimenti pubblici in innovazione erano superiori a quelli prodotti dagli investimenti privati. Si tratta di esempi di politiche attive per la crescita che avrebbero effetti molto positivi e che vanno in una direzione opposta a quella del rigore che sta strangolando l'Europa.

Infine, dobbiamo renderci conto che sia l'economia europea che quella statunitense erano affette da un patologia ancor prima dell'esplosione della crisi. Fino al 2008 l'economia europea e quella americana erano sostenute da una bolla speculativa che interessava principalmente il settore immobiliare. In assenza di quella bolla si sarebbero visti tassi di disoccupazione molto più elevati. Ovviamente non vogliamo tornare a una crescita fondata su bolle speculative (...). È necessario comprendere, dunque, quali sono i problemi di fondo che colpivano le nostre economie già prima della crisi e che, oltre a non essere stati affrontati sino ad oggi, sono peggiorati durante la recessione. Il primo 
problema sono le disuguaglianze crescenti nelle nostre società. La crisi ha contribuito ad aumentarle ovunque, negli Stati uniti i benefici della ripresa sono andati quasi completamente all'1% più ricco della popolazione. Negli Usa il valore del reddito mediano (quello che vede metà degli americani con redditi più alti e l'altra metà con redditi inferiori) al netto dell'inflazione è oggi più basso di 25 anni fa. Questo fa sì che la famiglia americana media non abbia soldi da spendere e, di conseguenza, la domanda aggregata rimane debole. Il secondo elemento è legato alla necessità di una trasformazione strutturale verso l'economia della conoscenza. Una trasformazione che i mercati non sono in grado di gestire. Il ruolo di guida e di stimolo di tali trasformazioni dev'essere esercitato dei governi i quali, a causa della crisi attuale, non hanno in alcun modo svolto questo compito (...)
La politica industriale sarà senz'altro uno degli strumenti fondamentali per uscire da questa situazione. È necessario un Fondo europeo per la disoccupazione e un Fondo europeo per le piccole imprese, investimenti che vadano molto oltre quello che fa oggi la Banca europea degli investimenti.
Oltre alle cose che andrebbero fatte vi sono, però, anche cose che non vanno fatte. Per quanto riguarda il mercato del lavoro, ho già detto che maggiore flessibilità non aiuterà a risolvere i problemi attuali, anzi li aggraverà aumentando le disuguaglianze e deprimendo ulteriormente la domanda. La situazione italiana, ad esempio, vede già presente un elevato grado di flessibilità; aumentarla ancora indebolirebbe l'economia senza portare vantaggi. Bisogna essere molo cauti.
Cosa non bisogna fare
Un'altra cosa che l'Europa non deve fare è sottoscrivere il Trattato transatlantico sul commercio e gli investimenti (Ttip). Un accordo di questo tipo potrebbe rivelarsi molto negativo per l'Europa. Gli Stati Uniti, in realtà, non vogliono un accordo di libero scambio, vogliono un accordo di gestione del commercio che favorisca alcuni specifici interessi economici. Il Dipartimento del Commercio sta negoziando in assoluta segretezza senza informare nemmeno i membri del Congresso americano. La posta in gioco non sono le tariffe sulle importazioni tra Europa e Stati uniti, che sono già molto basse. La vera posta in gioco sono le norme per la sicurezza alimentare, per la tutela dell'ambiente e dei consumatori in genere. Ciò che si vuole ottenere con questo accordo non è un miglioramento del sistema di regole e di scambi positivo per i cittadini americani ed europei, ma si vuole garantire campo libero a imprese protagoniste di attività economiche nocive per l'ambiente e per la salute umana. La Philip Morris ha fatto causa contro l'Uruguay perché l'Uruguay vuol difendere i propri cittadini dalle sigarette tossiche. La Philip Morris nel tentativo di contrastare le misure adottate in Uruguay per tutelare i minori o i malati dai rischi del fumo si è appellata proprio ai quei principi di libero scambio che si vorrebbero introdurre con il Ttip. Sottoscrivendo un accordo simile l'Europa perderebbe la possibilità di proteggere i propri cittadini. Questo tipo di accordi, inoltre aggravano le disuguaglianze e, in una situazione come quella europea, rischierebbero di approfondire la recessione.
Si può ancora aspettare?
L'Europa può ancora permettersi di aspettare? Se non si cambia la struttura dell'eurozona, se l'Europa continua sulla strada attuale, si candida a perdere un quarto di secolo, dovete esserne consapevoli. Quando eravamo nel mezzo della Grande Depressione degli anni trenta, non si sapeva quanto sarebbe durata, ed è finita solo con la seconda guerra mondiale e la massiccia spesa pubblica che l'ha accompagnata. Non dobbiamo augurarci che l'attuale crisi venga risolta allo stesso modo, ma oggi l'Europa ha le mani legate.
Infine, la questione della democrazia. C'è un deficit di democrazia creato dall'introduzione dell'euro. Gli elettori votano a favore di un cambiamento delle politiche, poi arriva un nuovo governo che dice «ho le mani legate, devo seguire le stesse politiche europee». Questo compromette la fiducia nella democrazia. Oltre alle argomentazioni economiche che rendono necessario un cambiamento c'è questa disaffezione nei confronti della politica, che porta al rafforzamento delle forze estremiste. Non è soltanto l'economia che è in gioco, la posta in gioco è la natura delle società europe.

giovedì 18 settembre 2014

Divisi si perde

L’idea che l’unione faccia la forza ovviamente fa parte della saggezza popolare. D’altro canto  gli antichi Romani, con il loro «divide et impera», ci hanno insegnato come dividere il campo avversario sia un ottima strategia per vincere. Senza ricorrere alle lotte di classe di Marx, lo stesso Adam Smith sosteneva che «I padroni, essendo pochi,  possono coalizzarsi più facilmente" (dalla Ricchezza delle nazioni). 
Mi domando allora perché, visto che queste cose sono abbastanza evidenti, la maggioranza dei cittadini  continui a subire una situazione provocata da una serie di scelte scellerate da parte di certe élite. 
Sia chiaro, come ho scritto in altri post, la democrazia è una bella parola ma che nasconde molte insidie. Non sono affatto un populista convinto, cioè che il popolo abbia sempre ragione, credo comunque che, come sosteneva Popper, abbia il diritto e il dovere di scegliersi le élite che lo governano e che, d’altra parte, queste  devono essere soggette al controllo delle istituzioni (buone istituzioni comunque). 
Questa premessa per dire che, in realtà, la stragrande maggioranza della popolazione mondiale ha degli interessi comuni, ovvero  quello di aver diritto a un certo benessere e a un set di diritti fondamentali e, inoltre,  che l’ambiente in cui viviamo e, spero possano vivere i nostri figli, sia preservato e mantenuto. 
Ora io sono profondamente convinto che, dato l’attuale livello tecnologico e di conoscenze, ci siano le condizioni per vivere in maniera  più dignitosa tutti e che si possa proseguire in un miglioramento generale  delle condizioni di vita. Certo ci sono delle grandi differenze  ancora e non si può risolvere tutto in poco tempo ma, mentre vedo favorevolmente con i limiti che dopo dirò, il miglioramento delle condizioni delle popolazioni che fino a qualche decennio fa erano in condizioni di profonda povertà, noto, d'altra parte,  che nei paesi sviluppati si sta rischiando di ridurre le conquiste sociali, ottenute con grandi sforzi, per livellarci verso il basso. 
Come ho detto ci sono dei limiti allo sviluppo, è sbagliato il modello occidentale sinora adottato con un consumo e spreco insensato di risorse, questo modello non può e non deve essere esattamente replicato dai paesi sottosviluppati, dobbiamo insieme, mentre loro crescono, adottare un modello più rispettoso della limitatezza delle risorse e comunque più razionale. Noi dovremmo accettare di ridurre il nostro consumismo insensato, sono certo vivremo meglio e loro, i paesi in via di sviluppo, devono avere la possibilità di raggiungere un livello di vita più che dignitoso senza ripercorre gli stessi nostri errori, pensate solo a cosa era Pechino, città sottosviluppata  ma pulita, e cosa è oggi , in crescita, ma profondamente inquinata. Quello che mi dispiace è che le forze, diciamo "non conservatrici" cioè di coloro che non sono contrari al cambiamento, siano profondamente divise e litighino su questioni secondarie perdendo di vista l'obiettivo comune. Perché su alcune questioni non ci dovrebbe essere una certa convergenza? Non credo che gli interessi di chi riceve il proprio reddito da lavoro  siano così lontani, siano essi imprenditori, dirigenti di azienda, professionisti, impiegati o operai, invece vedo divisioni insensate. Scendo su questioni più concrete, qualcuno giustamente potrebbe sostenere che volo troppo alto, a livello politico ad esempio, tra  Grillini e Pd e anche qualcun'altro, che hanno basi elettorali non diversissime, non si può raggiungere un qualche accordo per delle riforme politiche, economiche e istituzionali che siano più condivise e rappresentino meglio la maggioranza dei cittadini? E come, altro esempio, tra  gli economisti, non smaccatamente liberisti, invece di litigare per dimostrare di essere uno più bravo dell'altro e attaccarsi in continuazione, non sarebbe possibile raggiungere un qualche accordo e fare pressione sulla politica, in particolare europea, per cambiare finalmente queste politiche scellerate che stanno svantaggiando la gran parte dei cittadini? E gli stessi cittadini, invece di combattere tra di loro, europei del nord contro quelli del sud e viceversa, autoctoni contro immigrati, lavoratori privati contro pubblici ecc., non farebbero meglio a combattere il vero nemico, ovvero chi sta cercando di ridurre le nostre conquiste sociali a beneficio dei soliti pochi
Certo, lo  so anch'io che queste considerazioni nascondono forse delle illusioni o sono un tantino naive, ma è che non sopporto l'idea che ci infiliamo in situazioni dolorose evitabili. Faccio solo un esempio, se alla fine della prima guerra mondiale, nella conferenza di pace, si fosse dato ascolto a Keynes, che era contrario ai pesanti pagamenti imposti alla Germania sconfitta, probabilmente (lo so che la storia non si fa con i se e i ma) ci sarebbero state meno opportunità per una salita al potere del partito nazista e tutte le terribili conseguenze successive.
In conclusione posso dare solo  un consiglio ai pochi cittadini che mi leggono: INFORMATEVI! Con questo intendo dire non solo di leggere i giornali, che spesso sono male informati e di parte, ma libri e anche di andare in Rete e leggere. Le fonti sono tante ma, col tempo, riuscirete a selezionarle e forse le cose, col tempo,  potrebbero sembrarvi più complicate della visione che avete ma, sicuramente, sarete un po più consapevoli che  vi stanno imbrogliando.

lunedì 8 settembre 2014

Diagnosi, malattie e terapie

Non sono un esperto di medicina ma possiamo dire, in generale, che  un medico per prima cosa analizza  i sintomi e i dati del paziente. Questo gli dovrebbe consentire una diagnosi della malattia, cosa ovviamente non facile. Una volta individuata la malattia si procede con la cura. Anche in questo caso la scelta  è difficile perché non tutte  le cure sono adatte a tutti i pazienti e, spesso, esistono cure alternative per la stessa malattia  che vanno testate e il cui effetto va verificato sul paziente. A volte le cure non esistono o sono poco sperimentate e si procede, quindi, in base alla sensibilità del medico e anche alle  decisioni del paziente. Riportando questo anche alla economia per prima cosa si dovrebbero vedere i dati e i sintomi. Ora, dopo che si era avviata la crisi economica, per effetto della crisi delle banche americane e  al blocco del circuito bancario a causa  delle quantità massicce di derivati ed altri titoli di pessima qualità nei bilanci di moltissime banche europee, i sintomi e i dati indicavano nel tempo: una caduta dei consumi e degli investimenti, un aumento della disoccupazione, il crollo del credito. Insomma una situazione tipica di inversione del ciclo e l’incamminarsi verso quella che Keynes chiamava «trappola della liquidità». 
Negli Stati Uniti, la Fed dopo aver attuato una serie di misure, anche discutibili, di salvataggio delle  istituzioni bancarie, ha proseguito con una politica monetaria espansiva per rilanciare l’economia e lo stesso dicasi  ha fatto il governo americano, anzi  alcuni economisti, vedi Krugman post  Uscire da questa crisi adesso!, hanno anche criticato che tali misure erano anche troppo timide. 
In Europa invece che si è fatto e detto? Si è parlato di austerità, anche espansiva una specie di ossimoro, e si sono attuate tutta una serie  di misure completamente opposte a quello che i sintomi indicavano, fino al capolavoro di masochismo rappresentato dal «fiscal compact». Qualcuno potrebbe dire che non erano chiari i sintomi o c’erano divergenze sulle cure, ma il fatto che sulle cure una quantità enorme di economisti sosteneva il contrario qualcosa voleva pur dire. Tra l’altro assistiamo ad una retromarcia dei  "liberisti", vedasi gli ultimi articoli di Tabellini e Alesina che, visto il peggiorare dei sintomi, hanno quasi completamente cambiato opinione e chiedono politiche espansive. Tra l’altro in economia, come in altri campi sarebbe bene differenziare e, quindi, adottare un mix di politiche mi sembrerebbe saggio. Per cui le manovre monetarie di Draghi, per altro  ancora timide per motivi politici (opposizione della Germania), da sole non basteranno ad alimentare la domanda ed è necessario un piano di investimenti pubblici a livello europeo e probabilmente dell’altro ancora. A questo punto delle due l’una, o si capisce che dopo gli evitabilissimi errori è venuto il momento di cambiare, e se ne convincono tutti, oppure se dobbiamo rimanere cosi sul Titanic che affonda, tanto vale cercarci la scialuppa  e abbandonare la nave dell’euro.

lunedì 1 settembre 2014

Luca Ricolfi - L'enigma della crescita

Il libro che recensiamo oggi è L'enigma della crescita, Mondadori, 2014.
Il tema su cui si cimenta questa volta il sociologo Luca Ricolfi, che insegna Analisi dei dati  alla Università di Torino ed è  autore di molti libri di divulgazione su temi economici e sociali, è la crescita. 
In una prima parte, l’autore, elenca ed analizza  gli studi economici sul tema, per poi proseguire con gli studi da parte degli statistici/demografi sulla evoluzione delle popolazioni, sia animali sia altri organismi, ad es. le piante. Dall’analisi comparata di questi studi e dai dati da lui elaborati, l’autore cerca di individuare sia gli elementi che caratterizzano lo sviluppo economico e sia la forma che questo sviluppo prende. Il suo studio è comunque dedicato ai paesi più sviluppati e al periodo che va dal 1995 al 2007, essendo l’ultimo periodo caratterizzato dalla profonda crisi che tutti viviamo ancora oggi. 
Dall’analisi dei dati,  per Ricolfi, i fattori che determinano in un paese, in positivo o in negativo, la crescita, risultano essere: il capitale umano, ovvero il livello qualitativo/formativo delle risorse umane), il sistema istituzionale (principalmente economico), la tassazione sulle imprese e il lavoro, gli investimenti esteri, e il livello del reddito. Mentre i primi, cosiddetti fondamentali, contribuiscono positivamente alla crescita, con pesi diversi e in funzione ovviamente del loro valore, l’ultimo, il reddito o benessere, influisce in maniera considerevole in modo negativo, cioè tanto più è alto tanto meno un paese può avere tassi di crescita elevati. 
In definitiva Ricolfi conferma le conclusioni del modello neoclassico di Solow, e cioè che i paesi tendono con il tempo e con l’aumento del reddito pro-capite a diminuire la crescita. Tale andamento può essere più o meno veloce a seconda dei fondamentali  e, inoltre, sempre in funzione di questi ultimi varia il reddito finale, ovvero quello al di sopra del quale non dovrebbe esserci più crescita. Quindi un paese può, migliorando i suoi fondamentali, rallentare la corsa verso la diminuzione  della crescita, ma i dati sembrano confermare che, al di là della crisi recente,  tutti i paesi i sviluppati si erano comunque incamminati verso una fase di declino dello sviluppo.
Alcune considerazioni: il libro è comunque interessante e anche se, pur essendo divulgativo, richiede una dose di attenzione per districarsi nei vari passaggi, anche matematici, che necessitano comunque un certo impegno.   Ovviamente non sono in grado di fare critiche alla sua analisi dal punto di vista quantitativo, anche se, come tutti i modelli è comunque una semplificazione di una realtà economica che, per forza di cose, è molto più complessa.  Su molte indicazioni concordo e anche, credo, buona parte degli economisti; ritengo che,  comunque, sottovaluti, in qualche passaggio, il ruolo della crisi ed inoltre, quello che altri studi mettono in evidenza, cioè l’importanza del fattore tecnologico come strumento di sviluppo.